La Quarta Rivoluzione Industriale è vicina, cosa accadrà quando la tecnologia diventerà “creativa”?

La tecnologia finora ha distrutto meno lavori di quelli che ha creato, soltanto perché noi siamo stati capaci di concepirla ed usarla in modo creativo. Ma cosa succederà quando la tecnologia stessa diventerà creativa? Robotica, auto & tecnologia, sportelli e monete virtuali, con le quali stiamo già coabitando il pianeta, sono solo l’antipasto rispetto a quanto i “big data” rappresenteranno in termini di rottura con il passato. L’era della “Quarta Rivoluzione Industriale” sta iniziando.

L’innovazione che arriverà, attraverso l’utilizzo dei cloud, unirà competenze ed esperienze con una totale automazione ed interconnessione delle produzioni: consegnandoci l’Industria 4.0. Rispetto alle 3 precedenti rivoluzioni – macchina a vapore, elettricità ed informatica, la quarta, per la velocità e la pervasività con la quale si sta imponendo, rischierà di far saltare tutti i tradizionali modelli economici e sociali. Algoritmi e sviluppo dell’intelligenza artificiale, integrati dall’elaborazione del linguaggio naturale (Nlp), filtreranno i dati non strutturati creando profili dettagliati per ogni cliente per identificare, catturare e indicizzare i dati, non strutturati o privi di testo, memorizzati all’interno dei sistemi di registrazione delle transazioni aziendali, comprese le informazioni sui prodotti bancari come carte di credito, prestiti, mutui e assicurazioni, insieme alle abitudini di acquisto online del cliente e le sue disposizioni finanziarie. Industria, servizi, moda, e sanità, studi legali e pubblica amministrazione, saranno gli abilitatori della 4° rivoluzione industriale.

In questa partita, giocheranno un ruolo di “play maker” i Data Center ed i cloud di nuova generazione dove le aziende avranno, oltre al vantaggio di poter sfruttare la velocità con cui viaggiano i dati, anche quello di non pagare il traffico in quanto compreso nel servizio offerto da questi big data. Insomma una disponibilità estrema nell’uso di dati destrutturati, che costituiranno il nuovo petrolio per le aziende, mentre i Data Center costituiranno le raffinerie dove decodificarli. Accadrà così che il valore delle aziende verrà sempre più determinato dalle loro capacità di produzione, attraverso l’utilizzo di cloud o big data. Così facendo le intelligenze artificiali e/o amplificate svilupperanno nuovi algoritmi predittivi in grado di migliorare la percezione  delle aziende, in particolar modo di quelle che produrranno beni e servizi.

Fantascienza? Titolava solo qualche giorno fa un giornale: “… l’intelligenza artificiale ci dirà quando moriremo…Un software, testato da un gruppo di ricercatori dell’università di Adelaide in Australia, analizzando i risultati di esami diagnostici, nel 69 % dei casi ha formulato previsioni esatte…le nuove frontiere di big data ed I.A. possono essere efficaci alleati per aprire nuove prospettive…”

Ma, se le macchine cominceranno a pensare, sostituendo progressivamente il lavoro del cervello e non più solo quello muscolare, potrebbe rivelarsi oltre che un progresso civile anche una pericolosa minaccia?

In fondo a pensarci bene sarebbe la prima volta dove, a parti invertite, le macchine, i computer, dotati di una propria intelligenza elaborativa e creativa, confinerebbero l’uomo in una condizione talmente subordinata e marginale al punto di comprometterne la capacità creativa e di elaborazione. Del resto se del cervello non se ne facesse un uso intenso, importante, alla stregua di tutti gli altri muscoli del corpo, per ironia della sorte, ci ritroveremmo nella kafkiana condizione di originari creatori degli automi intelligenti in quella di “automi di carne” asserviti all’intelligenza artificiale.

Il nostro Paese del resto, che è al penultimo posto (dopo di noi la sola Romania) per il numero di laureati, come potrà riqualificare lavoratori con basso e medio livello d’istruzione?

Potranno, le intelligenze artificiali rivelarsi la soluzione? Il “lavorare meno e lavorare tutti” rischia di scadere in un effetto eco al pari di un vecchio canto degli alpini dove le parole d’ordine come reddito di cittadinanza, sostegno d’inclusione sembrano segnare un futuro di crescita dell’inoccupazione causata da uno scarso know-how.

Non diventeremo i nuovi servi della gleba del terzo millennio?

Il rischio stavolta c’è ed è reale. Non è una considerazione da etichettare sbrigativamente tra chi è a favore e chi invece è contro. Ridurre il tutto ad un ridicolo derby tra progressisti ed anti progressisti, sarebbe veramente sciocco.

Quello che è in gioco veramente è l’idea sulla quale vogliamo edificare per il prossimo futuro. Vorremmo realizzare e non subire le scelte inerenti il valore del lavoro, del welfare ed il patrimonio sociale da lasciare in eredità alle future generazioni.

Se vogliamo frenare la povertà, l’argine non potrà essere rappresentato dalla semplice elargizione di un reddito di cittadinanza: occorre riorganizzare il mercato del lavoro per innestare una nuova fase di economia sostenibile, capace di contrastare la precarietà e l’esclusione. L’obiettivo non sarà facile da raggiungere. Lo sviluppo dipenderà (e ne siamo convinti) in modo sempre più stretto dalle innovazioni tecnologiche, dal commercio internazionale, dalla conquista o addirittura creazione di nuovi mercati e dall’intelligenza artificiale. Il lavoro certo non sparirà, ma diventerà sempre più fluido, le mansioni di routine si contrarranno rapidamente e i vari settori produttivi saranno esposti a veri e propri effetti “marea”: espansioni repentine seguite da contrazioni, non interamente prevedibili (la teoria del cigno nero). Accadrà così che molti lavori scompariranno e molte persone avranno meno soldi da spendere, contestualmente si produrranno cose e servizi in modo più economico ma allora: se il nostro lavoro (autisti. magazzinieri segretarie, medici e radiologi etc.) sarà a rischio automazione, quel già consistente numero di persone arrabbiate e frustrate che oggi votano chi predica rabbia, magari prendendosela con gli immigrati, quando vedrà che sarà un robot a fregargli il lavoro cosa farà?  Si accontenterà di un reddito per la sopravvivenza? Sarà quello il nuovo paradigma salariale? E inoltre, se con l’introduzione dell’I.A., il sapere sarà sempre più una esclusiva dei big data, non potrebbe venir meno la ragione principale dello studiare? Di migliorare le proprie conoscenze?

Non vacillerebbe il principio che l’istruzione è un bene pubblico e che alla società servono comunque persone istruite?

Per gestire queste dinamiche in modo inclusivo occorrerà ripensare il concetto di modello di sviluppo a partire da quello solidarietà sociale, la così detta “fluidarietà”. Il termine è un po’ ambiguo ed è un misto tra solidarietà e fluidità dell’occupazione. Ma può avere connotazioni positive se pensato come un complemento e non in sostituzione del welfare esistente. Bill Gates ha proposto di tassare i robot per generare risorse per la collettività. Non ci sembra la strada maestra!
Il problema è che sarà sempre più difficile definire cosa è un robot. Un robot in una fabbrica sarebbe facile tassarlo, ma se una grande azienda usasse un software la dovremmo comunque tassare? E se in un paese venissero tassati robot ma in altri no, non si regalerebbe ad un Paese concorrente un incredibile vantaggio competitivo?

Tassare i robot sarebbe soltanto un modo di rallentare un progresso, e il progresso porterà anche molte cose cui non siamo disposti a rinunciare. L’obiettivo come si comprende non è facile da raggiungere.

Oggi i sistemi di tutela sono incentrati su sussidi accompagnati da politiche attive per riportare le persone al lavoro aiutandole nel frattempo. La rapidità dei mutamenti in atto richiederà però l’introduzione di altri strumenti, di natura preventiva e di sostegno, che proteggeranno ed aumenteranno la capacità dei lavoratori di reinserirsi in un contesto strutturalmente mutevole, ma pur sempre lavoro umano.

E’ la cosiddetta “occupabilità” di cui si parla da circa un ventennio, e che ai molti addetti ai lavori può sembrare una nozione ormai trita. La novità è però che in vari Paesi questa nozione si è finalmente tradotta in schemi concreti. I Paesi scandinavi stanno sperimentando sistemi di smistamento intersettoriale e interprofessionale dei lavoratori per far fronte agli effetti marea di cui parlavamo. In Olanda e Germania (ma anche in Canada e Australia) i lavoratori effettuano test periodici di “occupabilità”, che consentono loro di accertare lo stato delle proprie competenze. Alcuni propongono che queste forme di accertamento periodico e gli eventuali aggiornamenti diventino una nuova forma di assicurazione sociale. In Francia esiste da qualche anno un programma che si chiama “conto personale di attività”, sul quale lo Stato, i datori di lavoro e gli stessi cittadini (volontariamente) depositano risorse finanziarie da prelevare per esigenze di formazione. In alcuni casi, lo Stato accredita contributi sul conto per attività svolte in campo sociale. Naturalmente l’investimento in “occupabilità” deve iniziare ben prima dell’ingresso nel mercato del lavoro. La scuola svolge un ruolo cruciale, purché venga riorientata verso la trasmissione di conoscenze trasversali e la promozione di competenze complesse (come le capacità logiche), quelle che non diventano mai obsolete anche in contesti lavorativi fluidi.

Per finanziare queste nuove forme di fluidarietà, trattandosi di schemi e programmi sotto il profilo delle risorse possono essere gestiti dalle parti sociali nell’ambito della contrattazione decentrata, in altra parte devono attivarsi i soggetti sociali ed economici nei territori; la digitalizzazione e la virtualizzazione di molte filiere non spezzerà il legame fra lavoro e spazio geografico ed il tempo. L’occupabilità farà rima con mobilità ed i giovani dovranno essere pronti a muoversi più di quanto non facciano oggi, soprattutto nel nostro Paese. Ma non sarà né possibile né desiderabile sganciare il lavoro dal territorio. Pensiamo alla cosiddetta economia bianca, connessa all’invecchiamento demografico ed alla crescente domanda di servizi legati al benessere della persona e all’intrattenimento (turismo compreso), che manterrà un forte ancoramento territoriale e registrerà una massiccia espansione nei prossimi decenni.

Ovviamente, non sarà possibile far gravare i costi di questa riorganizzazione solo sulle imprese e i singoli territori. Ecco allora che in questo caso potrebbe essere effettivamente utile, attivare il reddito di cittadinanza. Tutti saremo chiamati a contribuire. Cambiare le modalità di finanziamento del welfare è la vera unica rivoluzione la 5.0 che dobbiamo affrontare per sostenere la crescita inclusiva in un mercato del lavoro sempre più fluido…nel frattempo: “…a ridatece er padrone!”